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Giuseppe Saponaro: filosofo e pittore

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Questa intervista esula dalle solite interviste di domanda e risposta. L’intervistato Giuseppe Saponaro è un uomo profondo e le sue considerazioni sull’arte e le sue motivazioni meritano di essere lette con grande attenzione. È la prima volta che introduciamo un’intervista con una considerazione iniziale. Le domande, standard e già lette innumerevoli volte in altri contesti, in questo caso rivelano il pensiero intenso e ironico e l’approccio serio e per nulla scontato di una persona fuori del comune. Consigliamo a tutti di leggere questo “racconto/intervista”, sorvolando sulla semplicità delle domande per concentrarci sulla prosa e la sostanza di una testimonianza preziosa. Giuseppe Saponaro, grazie.

Nome completo e professione

Giuseppe Saponaro. Docente universitario.

Chi è Giuseppe Saponaro?

Sono un professore di filosofia. Ho da poco compiuto 75 anni d’età. Vivo a Roma, ma le mie origini sono meridionali. Sono nato a Lecce, città barocca e gentile. Qui è avvenuta la mia prima formazione, fino al liceo classico.

A Roma mi sono laureato in filosofia, presso la «Sapienza», dove è anche iniziata la mia carriera universitaria, dopo un soggiorno di studi e di lavoro a Parigi, durato circa sette anni.

Non ho mai frequentato accademie o scuole d’arte. Né mi considero un pittore, in senso professionale, anche se da qualche anno ho l’onore di dare il mio modesto contributo quotidiano al gruppo di artisti denominato «Un disegno al giorno – nulla dies sine linea», magistralmente organizzato e diretto su Facebook da Alessandro Pedroni, che benevolmente ha voluto accogliere anche me.

Che mestiere fai?

Ufficialmente per maturata età sarei in pensione. Tuttavia continuo a insegnare filosofia, come professore invitato, presso la Pontificia Università Antonianum, in Roma. Questa dovrebbe essere l’attività principale. In verità, la vita da pensionato mi consente di fare un mucchio di altre cose, talmente disparate, che non saprei attribuirle a un vero e proprio «mestiere».

In queste incombenze rientra anche il gradevole compito di tenere il più possibile svegli matite e pennelli.

Da dove vieni

Vengo dalla Puglia. I miei genitori erano originari della terra di Bari, ma io sono nato e vissuto a Lecce. La mattina frequentavo le scuole elementari presso un convento di monache, il pomeriggio fino a tarda sera ero un perfetto ragazzo di strada.

Le suore dell’Istituto Gesù Eucaristico mi hanno introdotto ai misteri religiosi mediante l’uso di matite colorate, per l’esattezza, 12 «Pastelli Giotto», in un astuccio di cartone, da tenere sempre a disposizione in cartella. Era un’occupazione pomeridiana, divertente e pia.

Si trattava di colorare la «storia sacra», la vita di Gesù e le imprese dei Santi, una serie di figure già disegnate e prestampate, in bianco e nero, su speciali album da riempire e sul giornaletto «Vera Vita».

L’adiacente Parrocchia di San Lazzaro era congiunta al nostro Istituto tramite la Sagrestia. La chiesa non mancava di grandi tele dipinte, di santi e madonne, di statue angeliche in gesso o in cartapesta, di varie immagini sacre, ivi comprese tutte le stazioni della «via crucis», presso cui bisognava sostare, ammirare, contemplare, pregare. Consumai molte scatole di pastelli, ma non imparai a disegnare.

In campo «artistico», se così si può dire, la mia vera prima maestra fu la vita da monello di strada. Qui, per gruppi o per bande, si realizzava e consumava ogni giorno la perfetta identità di arte, gioco, invenzione, avventura. Era una forma spontanea di «arte povera», maestri la «Tradizione di strada», l’«Imitazione» e il «Bisogno».

In breve, si trattava di esercitare l’arte del gioco. E il vero, unico, gioco consisteva nel costruire con le proprie mani e con la propria inventiva gli strumenti stessi del gioco: archi, frecce, spade, lance, scudi, pugnali, cerbottane, fionde, pistole e fucili a elastico con molletta da bucato, monopattini, carriole, maschere; e mille altre magie e diavolerie con materiali di fortuna, perpetuamente riciclati. L’incantesimo di questa spontanea forma d’arte dileguò via via con la crescita e con l’avvento egemone del gioco della palla, poi del pallone.

Alle scuole medie inferiori conobbi il mio primo (e anche ultimo) professore di disegno. Nell’ora di «disegno ornato» pretese dalla classe la copia perfetta a mano libera di una «rosa», così com’era raffigurata nel libro di testo.

Solo un paio di noi riuscì nell’ardua impresa. Nella classe erano gli unici a dimostrare con scioltezza quel precoce «dono», quel misterioso «potere», che li equiparava al professore e li rendeva maghi ai nostri occhi. Non potevo assolutamente competere con chi sapeva rappresentare «a memoria» sul un foglio di disegno ornato le eroiche gesta di Ettore e Achille, di Paride e Menelao, il cavallo di Troia. Per salvare almeno l’onore, decisi di ripiegare sul «disegno geometrico» e sul sostegno psicologico di squadre, riga e compasso. E dissi definitivamente addio a matita, gomma e pastelli.

Al ginnasio, poi al liceo, la pittura e il disegno rifecero capolino con le lezioni di «storia dell’arte». Ma le statue del mondo classico, poi Raffaello e Michelangelo, erano da me distanti anni luce, tanto quanto la «consecutio temporum» dei latini o l’«ottativo» dei greci.

Negli anni universitari il mio cuore batteva ormai per la filosofia, per la politica e, se capitava, anche per le donne. Quanto all’arte in generale, mi attraevano allora più il cinema o la letteratura che la pittura e il disegno.

Unica pratica «artistica», per così dire, fu per me lo studio prolungato della musica e della chitarra. Era però un esercizio spontaneo, da autodidatta, condizionato in parte da ragioni politiche. Erano gli anni del ‘68!

Come, quando e perché è iniziato il tuo amore per l’arte?

Non è facile rispondere. Nel mio caso sarebbe anche improprio parlare di un «amore per l’arte».

Il mondo della pittura ha un aspetto insondabile, anche a causa degli stessi pittori, i quali di solito amano offuscare le loro indubbie capacità in una nube di mistero. Più che di amore, parlerei di «curiosità» per le pratiche artistiche, una particolare «attenzione», da parte mia, associata a sacro «rispetto» e «ammirazione» per risultati pregevoli esibiti sempre da altri.

Per questa ragione, probabilmente, il naturale sentimento dell’invidia si sarà sublimato in «amicizia». In breve, fin da ragazzo, mi sono stati sempre simpatici i bravi disegnatori, che ho avuto la fortuna di incontrare. Li frequentavo e li osservavo in corso d’opera. Forse è qui una lontana radice del mio sotterraneo interesse per le arti figurative.

Questa domanda sollecita certi particolari ricordi. Da bambino padroneggiavo la palla, mi ritenevo un piccolo campione, giocavo per ore senza posa, anche perché il campo di calcio era il piccolo cortile sotto casa. Ma il pomeriggio della domenica andavo da Marcello, un giovane con più del doppio dei miei anni, una figura schiva e solitaria, a causa di un handicap all’anca.

Mentre ascoltava ad alto volume le radiocronache delle partite domenicali, lui con la rapidità del lampo le disegnava in tempo reale su un quaderno a quadretti. Usava solo una penna biro nera. Ne veniva fuori un lungometraggio di pupazzetti in movimento, di figurine atletiche, di calciatori veri, viventi, di traiettorie, di passaggi tratteggiati, di rimbalzi, di tiri in porta, di pali, di reti, di finte, di fughe, di scontri.

Altro che Topolino e Paperino. Vedevo la partita uscire dalla penna sapiente di Marcello, ma ero io che giocavo, correvo, cadevo, tiravo, segnavo, «goal». Incredibile, geniale. Era impossibile e anche frustrante tentare di imitare l’arte di Marcello. La potevo soltanto ammirare e custodire nella memoria.

Un secondo ricordo, strettamente personale, a lungo rimosso, non sarebbe riemerso senza la presente intervista. Al quinto ginnasio, in novembre, una grave malattia mi condannò a tre mesi di ospedale e ad altri sei mesi di convalescenza. Appena quindicenne, ebbi un incontro ravvicinato con la «morte», persi l’anno scolastico e «invecchiai» precocemente rispetto ai miei amici coetanei, che, nella loro giovanile esuberanza, mi apparivano come una banda di scriteriati irresponsabili, senza alcun senso del «limite».

Convalescente, non avevo le energie intellettuali per recuperare da solo sette mesi di assenza scolastica. Per superare il mio generale stato depressivo, qualcuno mi consigliò lo studio della chitarra. La musica mi aiutò. Ma, inaspettatamente e casualmente, mi curò anche il disegno.

Tra i giornali di casa circolava anche «La domenica del Corriere», che io non leggevo, salvo l’ultima di copertina, con l’illustrazione del fatto della settimana. Non era un’immagine fotografica, ma un vero e proprio «disegno», anche colorato, eseguito da mano esperta. Ogni settimana aspettavo l’arrivo di quelle grandi «figure», m’incantavano, mi portavano in una realtà diversa dalla convalescenza forzata in un letto.

Non ricordo più come avvenne, ma un giorno cominciai spontaneamente a copiarle su un album da disegno. Usavo solo un paio di matite e riuscivo a «vedere» le forme. Traducevo le macchie di colore in scale di grigi, ma non sapevo che quei tratteggi di matita, quegli strofinii sulla carta, erano «scale di grigi». Procedevo guidato da un oscuro istinto.

Alla fine anche la «somiglianza» con i soggetti mi sembrava soddisfacente. Non avevo maestri o guide da seguire, pareri da subire, né punteggi o voti da ottenere; ero allievo e maestro di me stesso. Unica attesa e unico stimolo erano il puro piacere di disegnare e la magica sospensione del tempo reale in uno spazio immaginario, assolutamente ideale, di là dai giudizi e dalle critiche del mondo.

Ne uscii guarito, ma precocemente «maturo». E purtroppo anche ingrato, perché con la ripresa della salute fisica, con il ritorno alla vita normale trascurai gradualmente quella cura spirituale, fino ad abbandonarla e dimenticarla del tutto.

Altri ricordi in questa direzione sono legati alla vita politica, alle agitazioni studentesche e al movimento operaio negli anni ‘70, in Italia e in Francia. Ci fu in generale e in tutte le direzioni una generosa dissipazione di energie giovanili. L’immagine figurativa sottostava allora a un imperativo esterno, doveva collaborare con la parola, mettersi al servizio dell’idea politica, assolvere una funzione comunicativa e politica.

Figure e disegni comparivano su volantini, manifesti, su striscioni e cartelli, sui giornali murali, sulle vignette satiriche. In quell’epico trambusto anch’io tentavo di dare il mio piccolo contributo, ma non come pittore, né come disegnatore. Collaboravo nella scrittura dei testi, nell’impaginazione, nella ricerca di «simboli» adatti, ma avevo la fortuna di operare al fianco di veri professionisti, grafici, disegnatori, pittori, tipografi.

Ho coltivato sincere amicizie, ho visto nascere grandi opere d’arte, ho annusato per intere giornate fumi di sigarette misti a trementina, resine, petrolio, ma non osavo toccare i sacri pennelli, né le tavolozze, né l’ostica selva di carboncini, matite, penne, pennini, pennarelli. Al massimo allineavo lettere alfabetiche e numeri trasferibili su qualche bozzetto destinato ai tipografi. In definitiva, io mi occupavo di filosofia, aspiravo a tutt’altro mestiere. Eppure, in quell’epoca critica, uno straordinario afflato politico riunificava aspirazioni e competenze che la divisione sociale del lavoro puntava invece a parcellizzare e separare.

All’occorrenza sfoderavo la chitarra, si cantava, si beveva, soprattutto si discuteva: «Secondo te, compagno pittore, l’arte dovrebbe porsi al servizio dell’idea, o viceversa?»

Quando è cominciata quest’avventura nell’arte?

In senso pratico, materiale, per me l’avventura nell’universo pittorico è cominciata quando avevo già 38 anni d’età, precisamente nel 1984, anche se, in senso teorico, il mio interesse era maturato ben prima, grazie soprattutto alle lunghe discussioni e alla mia profonda amicizia con Giancarlo Moscara, pittore leccese, grande artista, non abbastanza noto, purtroppo di recente scomparso.

Si era formato presso l’Istituto d’arte di Lecce, affermandosi prima come allievo esemplare, subito dopo come didatta di prestigio. Negli anni ‘80 la sua poliedrica professionalità spaziava ormai di là dalla scuola, nei vasti universi della fotografia, della stampa editoriale, imprenditoriale, soprattutto nella grafica «politica». Ho avuto la rara fortuna di osservarlo all’opera.

Per vezzo professionale, io risalivo ai massimi sistemi, ribaltavo ogni cosa in filosofia. Lui invece mi parlava per ore delle virtù e dei vizi della «carta», anzi dei vari tipi di carte, del loro inconfondibile «carattere», come se fossero «persone». Io mi perdevo nel mondo delle idee. Lui le trasformava prontamente in immagini e in figure eloquenti. Io mi dilungavo in sottili «analisi» verbali. Lui mi esortava alla «sintesi». Io interpretavo le «cose già date». Lui le creava ex novo. Io citavo la Critica del Giudizio di Kant, l’Estetica di Hegel o di Lukács. Lui sospirava: «Il guaio dei filosofi è che sputano sentenze di verità su tutto, anche sul disegno e la pittura, senza magari aver mai preso in mano una matita». Io mi difendevo: «Il guaio dei pittori è che fanno e rompono a piacimento, senza magari aver mai chiarito o scritto una parola sul come e sul perché». E lui: «Ci sono sempre le eccezioni, che confermano la regola. Klee e Kandinsky, per esempio, sono approdati alla teoria filosofica tramite la pratica artistica e l’insegnamento della medesima. Ci dovrà pur essere un modo per arrivare alla pittura tramite la filosofia. Questo è affare tuo».

Il 1984, appunto, fu l’anno che mi offrì l’opportunità di trovare il modo e il punto di quel passaggio così cruciale nella mia vita. Non lo avrei però mai trovato, se non avessi maturato in precedenza delle sufficienti ragioni per cercarlo. Io ero un modesto professore. Lui, Giancarlo Moscara, era un Maestro.

Che cosa accadde di tanto importante nel 1984?

Prima di rispondere, mi sia concessa una pedanteria da professore.

La filosofia si occupa di tutto, quindi anche di arte. Tuttavia, tra essere filosofi ed essere artisti c’è una bella differenza, la stessa che corre tra la teoria e la pratica. Certamente non sono mancati in passato grandi artisti che siano stati anche cultori della filosofia, ma molto più rari sono i filosofi, specialmente in età moderna, che si siano occupati di arte, non solo in teoria ma anche in pratica.

Normalmente s’incontrano, da una parte, artisti che sono orgogliosi di «fare», senza preoccuparsi minimamente di indagare sulle condizioni che rendono possibile questo loro fare; dall’altra parte, filosofi che pretendono di «conoscere in generale» cose che non hanno mai fatto o che addirittura si vantano di non saper fare.

Così va il mondo oggi. In passato le cose erano un po’ diverse.

A me capitò, nell’anno 1984, di dover preparare un corso universitario sulla filosofia di Edmund Husserl, matematico e filosofo tedesco, vissuto tra il 1859 e il 1938.

Cominciai a studiare con grande serietà questo personaggio, così come avevo fatto in precedenza con altri filosofi. Già questo è un lavoro difficile. Infatti, per comprendere a fondo un filosofo, non basta leggere e studiare le sue opere; occorrerebbe piuttosto entrare nella sua testa, padroneggiare il suo modo di pensare, di ragionare e di scrivere.

Ben presto mi accorsi che nel caso di Husserl, fondatore della «fenomenologia filosofica» [ora sarebbe troppo lungo specificare di cosa si tratti esattamente], questo mio modo di procedere non sarebbe stato sufficiente, non poteva funzionare per soddisfare le mie esigenze.

Husserl invitava i giovani studiosi della sua generazione a non perdersi in vuote astrazioni mentali, li spronava piuttosto ad «andare alle cose stesse».

Secondo lui, la filosofia poteva rinascere, diventare una «scienza rigorosa» degna di rispetto, ma a una condizione: doveva diventare una «filosofia del lavoro» e come tale doveva essere praticata.

Lo stesso Husserl, da giovane, ha potuto scoprire qualcosa d’interessante sull’«essenza del numero», solo dopo aver studiato e praticato in prima persona le scienze matematiche per lunghi anni. La stessa cosa vale per le sue ricerche nel campo della logica e della psicologia. Quando parlava di arte, si riferiva prevalentemente alla musica, perché era un’arte a lui familiare.

Proprio nello stesso periodo mi capitò di leggere gli scritti del pittore russo Wassily Kandinsky (1866-1944), uno dei fondatori della «pittura astratta». Ed anche uno dei pochissimi pittori che rifletteva e scriveva sui fondamenti teorici della propria pratica pittorica.

In breve, avevo a che fare con due notevoli personaggi, vissuti nella stessa epoca, i quali però non ebbero mai occasione di conoscersi e di incontrarsi in prima persona. Sembravano estranei l’uno all’altro, ma dal mio punto di vista e per le mie esigenze i due si fusero subito in un unico problema. Leggevo gli scritti fenomenologici di Husserl e riuscivo a capirli meglio solo applicandoli alla metodologia pittorica posta in atto da Kandinsky. Viceversa, notavo che il pittore Kandinsky nei suoi scritti, in parte anche autobiografici, presentava la fenomenologia del dipingere, proprio come se egli avesse scoperto e praticato il medesimo metodo della «riduzione fenomenologica» proposto dal filosofo Husserl.

Da tutto ciò ricavai in breve tempo la seguente conclusione: non avrei mai potuto insegnare in un corso universitario la fenomenologia di Husserl [che, appunto, si proponeva come una «filosofia del lavoro»] senza attuarla direttamente in un campo di lavoro pratico e concreto, senza davvero anch’io «andare alle cose stesse», come voleva Husserl. L’incontro casuale con Kandinsky rese più facile la mia scelta: decisi allora che il mio campo di lavoro e di scoperta sarebbe stato quello della pittura e del disegno. Così, da tenace autodidatta quale sono sempre stato e resto, cominciai ad assimilare con grande umiltà e rispetto l’«a, b, c» della matita e del pennello.

In questo modo io riuscii anche a capire meglio come e in che senso la riflessione filosofica, puramente mentale, potesse diventare una faccenda manuale e, viceversa, come disegnare e dipingere fossero innanzitutto una faccenda mentale, legata all’arte di «vedere» (= ideare) e insieme «non vedere» (= fare astrazione da) le cose stesse. Avevo finalmente trovato qualcosa da imparare e da insegnare.

Anche in passato, soprattutto da giovane, avevo messo in pratica la teoria filosofica. Il campo prescelto era la «politica» e il maestro filosofo si chiamava Karl Marx. Questa, però, è un’altra storia.

Cosa hai studiato e dove?

Come ho già detto, in questo campo, sono un perfetto autodidatta. Non ho mai frequentato scuole d’arte, accademie o altri luoghi deputati alla bisogna.

Ciò però non vuol dire che io non abbia avuto o conosciuto dei maestri. In piccola parte, come già accennato, mi è capitata la fortuna di incrociarne personalmente qualcuno. Tuttavia, in grandissima parte, li ho dovuti cercare e scoprire da solo, nelle biblioteche, nelle librerie, nelle mostre d’arte, nei musei.

Quando parlo di «maestri», non mi riferisco ai grandi geni della storia dell’arte, ma a bravi pittori, disegnatori, anatomisti, che hanno però insegnato e anche pubblicato trattati di pittura, manuali di tecniche artistiche. Di questo in partenza io avevo bisogno. Dal 1984 a oggi ho letto, studiato, collezionato centinaia di volumi, di ogni dimensione e spessore; non solo pagine da leggere e figure da guardare, ma soprattutto «cose da fare». Sarebbe ora impossibile e fuori luogo menzionarli tutti. Qui mi limiterò a ricordare quelli che più mi hanno formato e talora anche del tutto trasformato.

Il primo, assolutamente indimenticabile, è José M. Parramón, Saper dipingere a olio, Hoepli, 1983. Emozionante! Il mio primo esercizio fu il disegno e la pittura monocromatica di un cubo in prospettiva. Materiali: bianco titanio e terra d’ombra bruciata su carta Canson. Poi, in successione, seguirono una sfera, una brocca, una cipolla e un pomodoro dal vero, ma sempre in «visione monocromatica», strizzando gli occhi.

Il passaggio al colore fu per me istruttivo e rivelatore dei primi rudimenti sulla teoria della luce e del colore. Fu una pedana di lancio, che più tardi mi avrebbe condotto da Newton a Goethe, a Itten, alla sintesi additiva e sottrattiva, al cerchio cromatico, al contrasto simultaneo, al contrasto dei colori complementari, al caldo/freddo, agli accordi armonici. Affascinanti teorie.

Per me, però, la «praticaccia» iniziò con gli esercizi di Parramón. Occorreva costruire una tavola di 80 colori (40 caldi + 40 freddi), semplicemente mescolando al «bianco di titanio» e tra di loro in sapienti proporzioni i tre cosiddetti «primari». Per la tecnica a olio Parramón indicava il «giallo di cadmio medio», il «carminio di garanzia scuro» e il «blu di Prussia». Andai avanti così per mesi, per anni, e ancora oggi vi faccio ricorso, per parsimonia e per amore della semplicità.

Ad ogni modo, con segreta sorpresa mista a orgoglio, onorai il maestro e portai a buon fine l’ultimo esercizio del mio primo corso di pittura ad olio: una natura morta con tazzina da caffè e caffettiera di porcellana bianca in primo piano, una bottiglia (verdastra) di vino (rosso scuro) in secondo piano, su un fondo scuro, grigio verdastro armonizzato con terre scure e sfumate all’orizzonte. Il tutto su un foglio di carta Canson. Probabilmente risale a queste originarie esperienze la mia spiccata predilezione per i supporti cartacei e per il piccolo formato nella tecnica a olio.

Naturalmente Parramón mi condusse ben oltre. Non tardarono ad arrivare altri preziosi manuali, sempre della editrice Hoepli, via via dedicati al «saper disegnare», al «paesaggio», alla «natura morta», al «nudo», all’«acquarello». Dopo arrivarono molti altri autori e maestri, italiani, tedeschi, inglesi. Fu un flusso inarrestabile, che dalle librerie mi trascinava in tutti i negozi ed empori di «Belle Arti» nella città di Roma, e in qualunque altra città mi capitasse di soggiornare.

Ogni mio progresso era certamente gratificante, ma anche perfidamente frustrante, perché accresceva le attese e nello stesso tempo evidenziava difetti, problemi sempre nuovi, non tutti risolvibili con i noti precetti manualistici. Ciò mi spingeva ad allargare a dismisura il campo di ricerca; ma anche la quantità e la varietà devono pur avere un loro limite. Probabilmente, senza rendermene conto, peccai di eccesso e dissipai per anni molte energie in una miriade di progetti occasionali e casuali. Dopotutto, la pittura non era il mio mestiere. Non dovevo vendere i miei quadri, per sbarcare il lunario.

Così non potei non abbonarmi per anni al mensile «Disegnare & Dipingere» (Milano), che importava in versione italiana valanghe di sperimentazioni pittoriche prodotte e originate nel mondo anglosassone. Poi arrivarono, in dispense settimanali, i corsi di «Pittura e Disegno» e di «Fare Arte» (Editore Fabbri), per un totale di 16 volumi. Ci fu in quegli anni una crescita imponente nel mercato della manualistica d’arte, che andò attenuandosi solo dopo l’avvento della rete informatica e della digitalizzazione delle immagini.

La vecchia Hoepli fu soppiantata dalla serie dei «Grandi manuali» della Newton Compton (tra questi, notevole, «Le chiavi del disegno» di Bert Dodson), in concorrenza con i «Grandi manuali» della Fabbri Editrice. Anche «Il Castello» e la «Ikon Editrice» arricchirono gli scaffali della mia libreria. Tralascio gli omologhi editori tedeschi, inglesi e americani, da cui pure mi sono abbondantemente rifornito. Troppi stimoli generano troppi bisogni ed espongono al rischio di una eterna navigazione, senza approdi.

Prima di tracciare una mia strada, è stato però anche giusto sperimentare un po’ di tutto. Per quanto mi riguarda, anche in questo mio lungo percorso formativo, io ho sempre cercato di non confondere la «libertà di fare» con la «libertà di pasticciare». Ciò mi ha sicuramente frenato e in parte anche inibito. Il mio approccio iniziale non poteva che essere «tutta testa, poco cuore».

La figura umana, per esempio, non si improvvisa, né è sufficiente applicare qui la formula magica: «Disegna ciò che vedi». Ho dovuto conciliare molti freddi trattati di «anatomia per artisti», in una prima fase , con tutte, o quasi tutte, le pubblicazioni dell’italiano Giovanni Civardi; successivamente, con l’attivazione liberatoria della «parte destra del cervello», come esortava a fare l’americana Betty Edwards, benché io non sia mai riuscito a trasformare in pratica reale il suo ideale metodico e figurativo: «Disegnare ascoltando l’artista che è in noi». Anche perché «Artista » è concetto troppo impegnativo per le mie reali capacità, conduce di là da ogni mia effettiva attesa e finalità.

Vorrei infine menzionare quattro maestri, verso cui in modo particolare mi sento debitore e profondamente riconoscente, perché in ciascuno di essi, per profonda assonanza, ho riconosciuto la soluzione di molti miei problemi; e, grazie a loro, ho trovato anche i mezzi più adatti per tracciare un mio cammino.

L’italiano Ettore Maiotti ha fatto vibrare le corde del «ricordo artistico». A lui debbo la sintesi tra l’emozione del presente e la ricognizione del passato storico. Ha restituito dignità alla tradizione accademica e alla vocazione artistica. Ha demistificato le vane seduzioni dello sperimentalismo pseudo modernista, fine a se stesso. Ha evidenziato le infinite potenzialità di tutte le tecniche pittoriche, pur rafforzando in particolare, per quanto mi riguarda, la mia spiccata predilezione per l’uso dell’acquarello «en plein air».

Al tedesco del Sud, autodidatta e genio naturale, Eckard Funck, devo la sintesi di ottimismo e libertà, di entusiasmo e perseveranza. Ha definitivamente liberato la mia mano e la mia mente dalla camicia di forza di molti precetti intellettualistici. Mi ha trasmesso il coraggio di affrontare a tu per tu, con il puro acquarello o con un umile pennarello, la potenza assolutamente sovrastante di una foresta, o di un borgo medioevale, di una torre, di una marina. Ha svincolato la linea e il colore dall’obbligo della verosimiglianza. Mi ha sbloccato e spiazzato. Ha tramutato ogni mia imperfezione, esitazione, incertezza in virtù espressiva. Mi ha insegnato a valorizzare «in positivo» forme e contenuti attraverso l’arduo esercizio della pittura «in negativo»: «Positiv denken, negativ malen».

Al tedesco dell’Est, anatomista, grande didatta e accademico, Gottfried Bammes, devo la sintesi di «impressione» ed «espressione», attraverso la strutturazione sistematica della «figura umana», specchio e rappresentazione della nostra «anima». La totalità funzionale dell’organismo umano, un pittore non può capirla senza guardare; ma non può neppure vederla senza capire. L’intuizione estetica del corpo, anche del proprio, è un’unità sintetica di visione e comprensione. La forza espressiva dell’organismo rappresentato, anche solo sul piano puramente estetico, presuppone il gioco armonico di ogni sua funzione in vista di un «fine». Mediante il disegno della propria forma il corpo umano riconosce e perpetua se stesso.

All’americano David A. Leffel devo infine la configurazione in concreto dell’«eterno pittorico»; e, per quanto personalmente mi riguarda, lo stupore per l’incolmabile distanza, che sempre separa il compito dell’artista dalla sua ideale attuazione.

Cosa ti ha spinto ad entrare nel mondo dell’arte e a seguire studi artistici?

In parte ho già risposto. Qui aggiungerei un altro fattore importante: la necessità di conciliare lo spirito con la materia, la mente con il corpo, il lavoro manuale con la riflessione intellettuale. In breve, il bisogno di restituire unità culturale all’uomo.

La società contemporanea tende invece a separare e a parcellizzare le facoltà umane, mettendo seriamente in pericolo la sua stessa sussistenza.

Oggi il nostro sistema formativo, dalla scuola primaria all’università, produce forza lavoro a basso costo da asservire al meccanismo competitivo del mercato e della tecnica.

La scuola dovrebbe invece formare un cittadino consapevole delle proprie potenziali virtù, ispirarsi all’«uomo universale» di Leonardo Da Vinci, insegnare all’individuo tutte le arti, non solo quella illusoria, alienante, di vendersi sul mercato come «imprenditore di se stesso».

Questo vale purtroppo anche per i pittori professionali, anch’essi assoggettati a un «sistema mercantile» assolutamente estraneo ai valori dell’arte. Da questo punto di vista, io mi ritengo fortunato. Non sono certo entrato nel mondo dell’arte, per guadagnarmi da vivere. Non ho mai venduto un quadro in vita mia. Anzi, ho molto speso, dirottato buona parte del mio stipendio soprattutto nei negozi di Belle Arti, senza neppure mai disporre di uno «studio da pittore».

Direi, dunque, che sono entrato nel mondo dell’arte, per conoscerla. E per conoscere me stesso.

Come studente, qual è stata la lezione più importante che hai imparato?

L’umiltà, la modestia delle pretese. Una forma diversa di autodisciplina. E soprattutto la parsimonia dei mezzi.

Non ho mai avuto ambizioni artistiche. Non ho studiato, per diventare un Michelangelo o un Raffaello, così come non si studia la lingua italiana, per scrivere i Promessi sposi. Volevo solo provare, a me stesso e ad altri, che l’esercizio dell’arte non è riservato soltanto ai Geni. Siamo tutti potenziali creatori e fruitori di opere d’arte. Se hai imparato a scrivere, allora potrai anche imparare a disegnare e a dipingere. È un principio illuministico.

Per formazione filosofica e per carattere personale, io tendo verso il «puro equilibrio» tra la semplicità del mezzo espressivo e la profondità del significato rappresentativo. Per «semplicità del mezzo» intendo, per esempio, una sola matita, HB o 2B; una semplice penna biro; una raffigurazione pittorica con un solo colore; una raffigurazione con una sola coppia di colori complementari; una raffigurazione con i soli tre primari, e così via.

Di conseguenza non mi lascio sedurre da sperimentalismi pasticcioni, dal fascino del nuovo e del troppo. Diffido del gigantismo, delle «installazioni». Evito il più possibile di «mescolare il diavolo con l’acqua santa». Riconosco anche che questa mia propensione è solo un pio desiderio, un compito che ho assegnato a me stesso, un ideale quasi impossibile da mettere in pratica. Ciononostante resto fedele alla purezza e all’autonomia del mezzo pittorico. Ogni altra seduzione esterna mi ha sempre condotto fuori strada.

Come ho già detto, l’esercizio continuo, possibilmente quotidiano, del puro disegno e della pura pittura non mi ha certo fatto diventare un grande artista. Sono sempre stato e sono rimasto un dilettante autodidatta.

Per l’esattezza un eterno «principiante», ossia uno che «parte dai principî»; e uno che, se per accidente interrompe o smette la pratica quotidiana, è condannato a ricominciare tutto da capo, a ripartire da zero.

Ecco, questa è un’altra importante lezione che ho imparato. Il disegno non si apprende «una volta per sempre», come imparare a nuotare o ad andare in bicicletta. Il disegno è amore costante, impone «patti chiari e amicizia lunga». Il disegno mi ha sempre ammonito: «Se tu mi lasci, ti lascio anche io». E ha sempre avuto ragione lui.

In verità, la purezza in pittura, come in ogni altro campo, è solo un «ideale», e tale dovrebbe rimanere. Se l’ideale fosse realizzabile, smetterebbe di essere un ideale da raggiungere, un compito da svolgere, un impegno da mantenere, e nessuno più avrebbe voglia di fare arte. Inoltre, se non esistesse un ideale in pittura, nessuno più potrebbe avere un «valore» (un criterio) in base al quale giudicare, valutare, classificare i dipinti esistenti nella realtà.

Ogni mio scarabocchio quotidiano vorrebbe essere un «rappresentante» più o meno degno di quell’ideale. E come tale dovrebbe essere apprezzato.

Come artista, cosa vuoi condividere con il mondo?

La pace interiore, la bellezza, l’armonia dell’universo. Certamente non è questo un compito riservato solo agli artisti. Basterebbe guardarsi intorno, meditare sul mistero delle forme naturali, sull’essenza degli oggetti ordinari, che pur usiamo quotidianamente, ma subito gettiamo, senza alcun rispetto e considerazione. In realtà, nel mondo attuale non badiamo alle «cose stesse», ma piuttosto al piacere effimero, che possono magari procurarci, all’interesse economico, al potere, ai vantaggi, che ne potrebbero derivare.

Per di più la società dei consumi tende a inflazionare ogni tipo di «immagine», attraverso la pubblicità commerciale, i mass media, e adesso anche attraverso i cosiddetti «social». In questa patologica situazione, cos’altro avrebbe da dire e da condividere un artista? Potrebbe con l’immagine, magari critica, ironica, satirica, denunciare l’uso scellerato delle immagini. Ma sarebbe come entrare in un circolo improduttivo.
Io invece osservo i miei simili, guardo le «persone», dispongo oggetti ordinari su un tavolo, frequento boschi, montagne, spiagge, non solo per svago o per turismo.

Se l’arte consistesse solo nell’ottenere una copia il più possibile fedele di una spiaggia di sassi in una sperduta isola del Mediterraneo, allora per realizzare questo scopo ogni mezzo dovrebbe essere legittimo e auspicabile, ivi comprese le diavolerie della fotografia, di Photoshop.

Da questo punto di vista, sarebbe del tutto legittimo studiare e osservare i capolavori dei grandi artisti del passato, con il puro scopo di imitarli, o anche di scoprire presunti «segreti» (tecniche, ricette, formule magiche), che avrebbero reso possibili quelle opere. Tuttavia, in questo modo, noi avremmo certo imparato molto da un altro, ma conosceremmo poco o nulla di noi stessi.

Se invece noi cercassimo il valore dell’arte altrove, per esempio nel suo potere evocativo, allora potremmo con grande emozione scoprire che questa piccola spiaggia, a ridosso degli ulivi, non è solo un ammasso di sassi, di rocce, di sabbie, scavate dai venti e dalle acque marine, ma un soggetto vivente e ospitale, che avrebbe molto da dire, se solo avesse occasione di parlare.

Ecco, nei miei poveri schizzi di spiagge, di persone, di cose ordinarie e neglette, vorrei condividere la pace interiore, la bellezza e la segreta armonia del mondo, che abbiamo avuto la grazia di abitare, e che invece ci ostiniamo ciecamente, patologicamente, a distruggere.

Secondo te, da dove viene l’ispirazione?

Non saprei dire esattamente che cosa sia l’«ispirazione». È una parola abusata, associata di solito a concezioni romantiche, ad aspetti irrazionali, quasi miracolosi, pur presenti nella pratica artistica, ma destinati a restare senza spiegazione. Come se l’arista fosse un cieco strumento nelle mani di una potenza superiore, un pennello o uno scalpello nelle mani della Natura, o di Dio.

In questo senso, di fronte allo spettacolo di un tramonto, di una marina spumeggiate solcata dal Maestrale, di cumuli celesti dopo un temporale estivo, ebbene, di fronte a tanta schiacciante potenza, chi non ha pensato: «Oggi il Padre Eterno ha tirato fuori la sua scatola d’acquarelli»?

Tuttavia mi sembra temerario, se non ridicolo, quel pittore che voglia competere con la potenza della Natura. O competere con la precisione fotografica. Progetti del genere, anziché ispirare, inibiscono.

Più che l’ispirazione, che resta pur sempre nel vago e nell’ignoto, si dovrebbe invece indagare di volta in volta la «ragione sufficiente» del disegnare e del dipingere. E ogni artista avrà la propria, da cercare e da esibire. Io, per esempio, non mi sono mai messo all’opera, per compiere l’«opera». Tutte le volte che ho tentato di farlo, è stato un fallimento.

Preferisco giocare, senza mai prendermi sul serio. Vorrei, al riguardo, testimoniare qui una stranezza. Mi capita spesso di ottenere migliori risultati su carte scadenti o riciclate, che non su carte pregiate, predisposte alla bisogna e costate magari un occhio della testa. Ipotizzo, allora, che la cosiddetta «ispirazione» debba avere molto a che fare con la libertà di espressione e con inconsci poteri inibitori.

Il mio perenne affaccendarmi con matite e pennelli deriva forse da una radicale mancanza, da un bisogno di completezza, da un compito continuo, mai veramente interrotto. Se la sera lasci aperto sul tuo tavolo il fascicolo di «artedossier», sulle opere del pittore che stavi studiando, la mattina dopo saprai già quale sarà il soggetto del tuo prossimo bozzetto, del tuo schizzo o del tuo quadro.

Se la coda all’ufficio postale ti condanna a mezz’ora di attesa, hai di fronte e accanto a te una galleria di facce sconsolate, di posture, di acconciature degne di essere fissate sul tuo fedele taccuino. Se la calura estiva ti consiglia di trovare sollievo e quiete all’ombra di una faggeta, puoi intrecciare dialoghi infiniti con tronchi, rami, foglie e cortecce. Se il tuo attuale problema è comprendere il rapporto funzionale tra le ossa dell’avambraccio e quelle della mano, allora ti aspettano settimane di studi e di schizzi anatomici.

Più che di «ispirazione», parlerei di «aspirazione». La prima è un’attesa passiva, viene dall’esterno; la seconda è un’esigenza attiva, un’energia dello spirito.

Qual è l’elemento iniziale che innesca il processo creativo? E cosa ritieni sia più importante? Il concetto, l’idea espressa, o il risultato estetico e percettivo dell’opera?

Il principio di ogni inizio è la tua «storia», il tuo percorso, la tua «identità». Il tuo futuro è già inscritto nel tuo passato.

Con ciò voglio dire che, inteso in senso spirituale, il «processo creativo» non ha soluzione di continuità, non inizia, né termina con la singola opera. Il cominciamento della prossima è già in potenza nella precedente.

Nella pittura ad olio, per esempio, io prediligo i supporti cartacei di piccole dimensioni, cartoni grezzi, riciclati e simili. Ebbene, al termine della seduta io non butto mai nulla, i resti della tavolozza, rimescolati e ingrigiti, diventano la preparazione più idonea per quei poveri supporti in lista di attesa. Asciugando, già si predispongono all’avventura pittorica del domani. Il formato del supporto e la tonalità della sua preparazione dettano fin dall’inizio le loro condizioni.

Questi «limiti» sono già un ottimo inizio; che migliora, se si decide di utilizzare al massimo due colori complementari. Meglio ancora, se ci si concede l’uso di un solo pennello, preferibilmente di media o grossa taglia. Il segreto del massimo è nel minimo.

Con ciò, credo di avere già dato risposta anche al resto della domanda. In realtà l’«idea espressa» e il «risultato estetico» sono due facce complementari di un’unica e medesima intenzionalità artistica. Senza il significato ideale, il puro risultato percettivo sarebbe «cieco»; e, senza la materia pittorica, l’idea sarebbe «vuota». Di conseguenza, il processo creativo altro non può essere che l’atto spirituale con cui un’essenza puramente «possibile» riceve la grazia dell’«esistenza».

Quale fase dell’arte / creazione ti colpisce di più?

Quando l’immagine, spontaneamente, prende il sopravvento e detta le sue condizioni. Quando lo spirito si oggettiva nel supporto materiale. Quando il segno immanente, rimandando al suo significato trascendente, prende la parola. Quando, finalmente, l’opera si emancipa, taglia il cordone ombelicale e va da sé per la sua strada, come farebbe un figlio venuto su bene, ben educato e per nulla mammone.

Perché hai scelto un’arte visiva?

Perché l’immagine visiva è il complemento naturale del concetto linguistico. Le parole ordinano immagini sonore in successioni di tempo; mentre la figura pittorica rende eterno l’attimo fuggente in uno spazio immobile e senza tempo.

«Ut pictura poesis»: la poesia è come un quadro; e il quadro è come una poesia. Da professore pedante, parafraserei il motto nel seguente modo: un saggio filosofico potrebbe configurarsi come composizione strutturale ed equilibrata di puri significati concettuali, magari anch’esso con la sua brava «sezione aurea», dove collocare l’argomento principale; così come un’immagine pittorica potrebbe esibire in modo simbolico la presenza vivente di significati filosofici.

E dunque, se la filosofia ha potuto gettare un po’ di luce sulla pittura, è anche auspicabile che la pratica pittorica divenga specchio del pensiero filosofico.

Cosa si prova a manipolare la materia per creare un’opera plastica o pittorica?

Il manipolatore della materia alla fine prova la sorpresa e lo stupore di essere manipolato. Questo accade, credo, perché non esiste materia che non sia già formata. La manipolazione della materia è una lotta titanica tra la «forma formata» e la «forma formans», tra lo spirito già oggettivato e lo spirito oggettivante.

La tavolozza del pittore, in corso d’opera, è il perenne campo di battaglia di questa eterna lotta, ne conserva le tracce fino alla fine della seduta. E a quale pittore non è mai capitato lo stupore di giudicare i resti della tavolozza migliori dell’opera?

Da qui al presunto «informale», e poi al «concettuale», il passo è breve. Per quanto mi riguarda, non mi sono mai avventurato in queste moderne metafisiche di mercato. Preferisco conferire alla materia la sua giusta «pregnanza simbolica» mediante una «forma» appropriata. E, nel caso della pittura e del disegno, il «senso della forma» altro non può essere che il «senso del limite». Il miracolo della manipolazione è tutto qui: più l’artista dà forma, più ne esce formato.

Quale tecnica di disegno o pittura preferisci? Cosa rende speciale questo mezzo per te?

Preferisco la matita, la penna biro e l’acquarello. Questa preferenza ha le sue buone ragioni. In parte le ho già accennate. Quando decisi di avventurarmi nel mondo della pittura, la mia abitazione, condivisa con mia moglie, era di modeste dimensioni e già straripante di libri.

Uno spazio tutto mio, un atelier da pittore (con la finestra a Nord) è stato e rimane tuttora per me solo un vago sogno, magari ricorrente, ma pur sempre un desiderio.

Uno dei paradossi della vita umana è che si diventa finalmente saggi, e s’impara anche l’arte del vivere, giusto in prossimità del suo termine, quando le forze e la vita stessa ci lasciano. Del resto io studiavo, e continuo tuttora a ricercare, soprattutto per imparare, non per esporre o per vendere quadri.

Certamente, ho dovuto anch’io conoscere, provare le molteplici tecniche disponibili, selezionare i relativi materiali, prima di scegliere quelli più adatti alla mia condizione logistica, e soprattutto al mio scopo. Ancora oggi non esco mai di casa, senza indossare sulle spalle, da eterno studente, lo zainetto più adatto alla giornata. E lì talvolta c’è posto sufficiente solo per la matita, la biro, il taccuino, il blocco degli schizzi, e al massimo un giusto astuccio per l’acquarello.

Prediligo questi mezzi per la rapidità dell’esecuzione, per la modestia dei formati e dei supporti. Prediligo anche il lavoro dal vero, all’aria aperta, soprattutto in estate. Qui però, per disegnare su formati cartacei di media dimensione, almeno cm 35 x 50, io ho dovuto rispolverare reminiscenze dell’infantile arte di strada; e dunque costruire con le mie mani, utilizzando una tavola di compensato sorretta da gambe improvvisate e da un complicato reticolo di cordicelle, un giusto cavalletto da campagna, leggero e agevole da trasportare.

La tecnica a olio, che pure io prediligo rispetto all’acrilico e alle tempere, è condizionata dai medesimi limiti logistici. Per ragioni di spazio e di conservazione ho dovuto ben presto rinunciare a tele e telai, in mancanza di depositi adatti. Infine, curiosa particolarità, ho dovuto rinunciare anche alla trementina, che mia moglie assolutamente non sopporta. In compenso ho scoperto che il semplice olio di lino, per la pittura, e l’olio d’oliva, per la pulizia dei pennelli, garantiscono risultati accettabili anche su sottili supporti cartacei. Il tutto in omaggio alla medesima massima generale della parsimonia, anche qui da me adottata, che consiglia di puntare al massimo con il minimo.

È difficile discorrere d’arte senza parlare di sé. Quanto c’è della tua storia, dei tuoi ricordi, della tua vita intima, nelle opere che realizzi?

Di me ho già parlato abbastanza, e sicuramente anche troppo. Aggiungerei semplicemente che in quello che ho fatto, e che continuo a perseguire, c’é la traccia, il passaggio dell’«eterno principiante», nel senso indicato sopra. Ci sono molte ripetizioni, molti ritorni negli stessi luoghi, sugli stessi soggetti, talvolta apparentemente ossessivi. Però, quale pittore apprendista e ricercatore non ha incontrato alla fine, come Cézanne, la sua «montagna Sainte-Victoire»? Ho dialogato a lungo con i sassi, con gli scogli, con le acque marine, con gli ulivi, con i fiori, con le montagne, e con il corpo umano.

Solo dalle persone reali mi sono tenuto sempre a debita distanza, per rispetto e per discrezione. Avrò schizzato rapidamente, dal vero, centinaia, forse migliaia di facce, di espressioni umane, ma comunemente di estranei, di persone sconosciute incrociate casualmente in viaggio, sulla spiaggia, al bar, al ristorante. Eppure sono questi schizzi estemporanei, talvolta arbitrariamente «rubati», quelli in cui riconosco la mia stessa umanità.

Nessuna macchina fotografica riuscirà mai a vedere e a registrare ciò che solo un’umile matita, una penna o un pennarello potrebbero mostrarci. Da questo tipo di disegni non bisogna aspettarsi la somiglianza esteriore della persona. Essi hanno un altro scopo: non mirano ai singoli individui, ma all’universale, al tipico, all’essenza. Paradossalmente, nella loro molteplicità e varietà, questi disegni ci appaiono tutti uguali e insieme tutti diversi. Ci si può facilmente identificare, immedesimare in ciascuno, in virtù di un’empatia estetica. Appunto per questa ragione, forse, l’umanità è anche un «genere».

Qual è l’importanza di trasmettere la conoscenza artistica alle nuove generazioni?

Le nuove generazioni dovrebbero ricordare il passato e prospettare il futuro. Ma non possono assolvere il compito, senza investire i propri «talenti».

Trasmettere la conoscenza artistica, coltivare l’arte, è innanzitutto un dovere verso se stessi. L’arte è l’anello di una lunga catena culturale. Trasmetterla significa salvaguardare l’unità e la continuità della vita spirituale.

Secondo te qual è la funzione sociale dell’Arte?

L’arte costruisce liberamente un proprio mondo, deve inoltre salvaguardare la propria autonomia, ma essa non è mai fine a se stessa, né avulsa dalla società umana, dalla sua stessa storia.

L’artista oggettiva il proprio lavoro in opere destinate a circolare nel mondo e a influenzare la società. E, nel far questo, ogni artista forma ed emancipa innanzitutto se stesso. Tuttavia anche gli artisti sono esseri socialmente determinati ed interagiscono con la società. In questo senso la funzione sociale dell’arte è innanzitutto «educativa».

Ma il suo compito può diventare anche «terapeutico», soprattutto in società patologicamente squilibrate come attualmente la nostra. Una cultura autenticamente artistica può contrastare e vincere l’inflazione dell’«immagine», oggi ridotta a medium commerciale, puramente mercificata e pericolosamente idolatrata.

L’arte può anche ridimensionare lo strapotere della «tecnica», che impone i suoi standard e i suoi ritmi anche alla stessa strumentazione artistica. Le macchine possono certamente aiutare il lavoro artistico, purché l’artista non diventi strumento delle macchine. L’arte rende più armonica la comunicazione sociale, perché sa equilibrare la pura «rappresentazione» con la pura «espressione» e con il puro «significato» spirituale delle cose del mondo.

Cosa dicono le tue opere? Quali messaggi vogliono comunicare?

Occorrerebbe rivolgere questa domanda direttamente alle opere, non all’autore.

Un’opera, se pretende di essere davvero tale, dovrebbe allora già parlare da sé, senza l’ausilio di titoli, sottotitoli o didascalie. Ogni opera deve poter conquistare la propria autonomia, il suo inconfondibile significato; tuttavia essa vive e matura nel mondo storico, nell’universo della cultura; e spetta alla dialettica degli umani comprenderla, interpretarla e, auspicabilmente, anche completarla.

Quale messaggio personale vorresti lasciarci?

Due brevi messaggi in uno, entrambi indirizzati soprattutto ai giovani.
«Ars longa, vita brevis». Non basta una vita, per completare l’arte. Tuttavia, rifletti, una vita senza ricerca non merita di essere vissuta.
«Nulla dies sine linea». Non passi un giorno, senza avere scritto o disegnato qualcosa, senza aver lasciato traccia di te, senza riseminare con gratitudine ciò che hai raccolto.

Grazie Giuseppe Saponaro!

 

L'articolo Giuseppe Saponaro: filosofo e pittore sembra essere il primo su Circolo d'Arti - disegno e pittura.


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